Arturo Nathan, tra arte e psicoanalisi • Barbara Mapelli
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Arturo Nathan: puro, ingenuo e tormentato


L’intera vicenda esistenziale e artistica di Arturo Nathan si colloca all’interno di quel fervente clima culturale del primo novecento triestino. Artista europeo, creatore di una pittura particolare, introspettiva e liberatoria, raffigurante mondi immaginari di respiro metafisico e che ci trasmettono l’intensa solitudine dell’uomo. Attraverso una minuziosa ricostruzione storica, grazie anche alle interviste esclusive effettuate a Daisy Nathan, Gillo Dorfles e Mirella Schott Sbisà, si ripercorrono non solo le tappe dell’esistenza di Arturo Nathan, ma vengono analizzate quelle particolari influenze culturali sorte a Trieste nei primi decenni del Novecento e quell’indubbia esperienza psicoanalitica che contagiò molte personalità artistiche triestine.”

 
L’intera vicenda esistenziale e artistica di Arturo Nathan si colloca in quel particolare clima e fermento culturale triestino che attraversa i primi decenni del Novecento.

Un artista europeo creatore di particolari mondi immaginari e metafisici in cui traspare la sua inquietante e passionale disperazione. Il mare e le rovine, i cavalli e le statue, i fari, i relitti e i vulcani, sono immagini che caratterizzarono di tutta la sua opera e che ci trasmettono l’intensa solitudine dell’uomo. Avvolti in un’atmosfera particolare, come in un sogno, sulle rive di paesaggi nordici dalle luci perlacee, le solitarie figure sono in contemplazione di un minaccioso futuro, un triste e tragico presagio che finì con la morte dell’artista stesso. L’opera di Nathan fu influenzata non solo da quelle tendenze culturali sorte nei primi decenni del secolo, ma anche da quell’indubbia esperienza psicoanalitica che contagiò molte personalità artistiche triestine.

L’artista introspettivo Arturo Nathan che più di altri seppe esprimere, attraverso i suoi quadri, quel disagio esistenziale e quel “mal di vivere” che afflisse molte personalità triestine. «Nathan e Svevo non solo si conoscevano ma – come ricorda Gillo Dorfles – assieme a lui, a Leonor Fini e a Bobi Bazlen, ci trovavamo da Arti. Non credo però che Arti avesse rapporti con Svevo, era maggiore il rapporto di Leonor e Bobi con lo scrittore triestino».


 
 
 

Carlo Sbisà, come ricordò Gillo Dorfles, «in un certo senso era contagiato da Arti; infatti, alcune delle pitture di Sbisà sono fatte con una tecnica analoga a quella di Arturo Nathan e di de Chirico. Ma è tutta un’altra pittura perché era un ritrattista, dove l’elemento metafisico consisteva più nello stile e nella maniera di dipingere che nel contenuto figurativo dell’opera». «La personalità di Sbisà – prosegue Dorfles – era completamente diversa rispetto a quella di Nathan, non filosofica, molto più elementare, semplice e istintiva».

Un’amicizia, quella tra Nathan e Sbisà, di reciproca stima e affetto fraterno come ricordarono Daisy Nathan e la stessa Mirella Schott Sbisà, artista triestina e moglie di Carlo Sbisà. «Carlo – afferma Mirella Schott Sbisà – stimava molto Arturo Nathan e lo considerava una persona tranquilla, serena e molto profonda perché Arturo si occupava molto degli altri artisti. Discuteva se un artista andava bene oppure no o se un altro faceva o non faceva qualcosa. Era un uomo molto critico, in senso positivo, cioè una persona che studiava gli altri artisti con molta profondità».


 
 

Gillo Dorfles ricordò il suo primo incontro con Arturo Nathan presso lo studio dell’artista, grazie all’amico Bobi Bazlen che, sapendolo molto interessato alla pittura, li fece incontrare: «Bobi mi ha portato a conoscerlo nella sua casa di via del Lazzaretto Vecchio. Qui mi è venuto incontro una persona allampanata, alta, con una specie di camice da medico, molto timido, il quale mi ha fatto vedere alcune di queste sue opere. Già allora sono rimasto molto impressionato perché era un genere di pittura molto particolare. Da allora, ogni volta che tornavo a Trieste dall’Università, andavo a trovare Arti che era una persona del tutto particolare, da un lato era una specie di monaco laico, vedi il suo ritratto, dall’altro era una specie di filosofo, perché leggeva molta filosofia, e poi aveva questa fissazione pittorica».


Arturo Nathan esordì nella pittura da solo e senza maestro. La terapia lo spinse a riprendere quella sua naturale predisposizione per il disegno. Sin dai primi lavori le sue opere furono influenzate da quell’ambiente artistico triestino che risentiva dell’influsso non solo all’arte austro-tedesca, ma anche di quel linguaggio ricco di fascino che si mosse tra simbolismo, impressionismo e postimpressionismo francese. La capitale francese rappresentava, per molti artisti triestini, la nuova scuola a cui ispirarsi. Lo stesso Nathan – come ricordò la sorella Daisy – per accrescere la propria cultura si spinse non solo a Roma, Milano e Monaco, ma frequentemente si recò a Parigi per visitare mostre e musei. Anche se l’artista cercò nel suo percorso artistico di mantenere una certa individualità, l’influsso della scuola francese è ben visibile nelle prime opere del pittore. Appare quell’antinaturalismo, quel gusto sintetista e quella semplificata gamma cromatica armoniosamente combinata con tinte calde e fredde.


Barbara Mapelli

 
 
«I miei problemi sono sempre gli stessi: fare un’arte concreta (in opposizione all’astrattismo), incorporando in questa i valori astratti dei ritmi lineari, dei pesi dei volumi, delle espansioni delle forme; poiché mi sembra che anche questi valori astratti siano assai meglio leggibili quando s’incorporano, per così dire, in rappresentazioni oggettive, concrete. […] vorrei rappresentare inequivocabilmente gli oggetti, senza però cadere nella loro ‘ricostruzione’ o presentazione illusionistica. Infine vorrei che la bellezza di materia o tessuto, alla quale pure si deve tendere, non sopraffacesse con la sua qualità astratta l’evidenza oggettiva degli elementi che si vogliono rappresentare […]». Quindi un’arte che si allontana sia dall’astrattismo, sia da quei “giuochi di prestigio illusionistici”, ovvero come li definì Arturo degli «ingegnosi trucchi», belli a vedersi, ma «con l’arte propriamente detta (che si muove su di un piano molto superiore) essi hanno niente a che fare». Arturo Nathan
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